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Raccontare la storia dei videogiochi come un reportage

Quando la storia diventa esperienza

Raccontare la storia dei videogiochi non è un esercizio accademico né una semplice cronologia di eventi. È un viaggio attraverso decenni di immaginario, tecnologia, intuizioni creative, fallimenti, riscoperte. È un racconto che vive della stessa forza dei reportage: non procede per date e definizioni, ma per incontri, luoghi, atmosfere e visioni che hanno trasformato la cultura contemporanea.

La storia dei videogiochi non nasce nei libri, ma nei garage, nei laboratori universitari, nei centri di ricerca, negli uffici minuscoli dove pochi programmatori hanno immaginato mondi più grandi delle risorse a loro disposizione. Raccontarla significa rientrare in quegli spazi, osservare le mani che costruivano circuiti in silenzio, ascoltare il rumore dei cabinati accesi, percepire il sogno di chi voleva dare forma all’interazione prima ancora che il pubblico la comprendesse. La storia del videogioco, più di qualsiasi altro medium, chiede di essere “vista da dentro”.

L’inizio come territorio inesplorato

Ogni reportage sulla storia del videogioco dovrebbe partire da un luogo che oggi esiste solo come ricordo: le sale arcade. Lì il videogioco non era ancora industria, ma curiosità, vertigine, promessa. Le prime macchine non parlavano una lingua definita, ma esploravano possibilità. Galaga, Pac-Man, Space Invaders: titoli che non avevano un contesto alle spalle, ma che nel giro di pochi mesi hanno cambiato la percezione stessa del giocare. Raccontare questo momento significa descrivere l’odore del fumo nelle sale giochi degli anni Settanta e Ottanta, il suono metallico delle monetine, le luci intermittenti, la tensione di chi attendeva il proprio turno come se stesse entrando in un’arena.

Sono immagini che non si trovano nei manuali, ma che definiscono l’identità di un’epoca. Il reportage restituisce la vita che i libri spesso smussano.

Le case in cui tutto è iniziato

Dopo le sale arcade c’è un altro luogo chiave: le stanze degli sviluppatori. Sono ambienti piccoli, fatti di cavi e tazze di caffè, di monitor a fosfori verdi e di schemi di codice appuntati su fogli di fortuna. Il videogioco, nel suo primo decennio, è nato così: da poche persone che lavoravano con strumenti rudimentali, mossi da un’intuizione più forte dei limiti tecnici. Raccontare questo significa restituire la voce a chi spesso è rimasto dietro le quinte, agli ingegneri, ai programmatori, agli artisti che hanno inventato generi senza sapere di starli inventando.

È proprio qui che il reportage mostra tutta la sua forza: permette di entrare nel tempo in cui nulla era codificato e tutto era possibile.

La rivoluzione del salotto

Con l’arrivo delle console domestiche, il videogioco è passato dalla sala giochi al salotto. Un cambiamento che ha ridefinito la relazione tra il gioco e il mondo. Nel reportage questo passaggio è un momento emotivo: la famiglia riunita, la televisione che diventa portale, il bambino che scopre un universo nuovo dalla sua cameretta, gli adulti che osservano stupiti un medium in cui non sono più spettatori ma partecipanti.

Il giornalista che racconta questa fase deve soffermarsi sulle sensazioni, sulle storie personali che attraversano l’oggetto tecnologico: non solo i successi di Nintendo, Sega, Atari, Sony, ma il modo in cui quei sistemi hanno trasformato il tempo libero, la socialità, la percezione dello schermo.

La storia del videogioco è anche la storia di come è cambiato il nostro rapporto con la casa.

L’esplosione delle identità del medium

Gli anni Novanta e Duemila sono un momento in cui il reportage può fiorire pienamente. Lì nasce il linguaggio che ancora oggi abitiamo: le console a 32 bit, la rivoluzione del 3D, il passaggio dai mondi pre-renderizzati alle esperienze open world, l’incontro tra narrativa e interazione. Raccontare questi anni significa attraversare sale stampa, conferenze E3, uffici pieni di concept art, incontri con creativi giapponesi che iniziano a dialogare con team occidentali.

In questa fase la storia non è più solo invenzione: diventa industria globale. E il reportage deve tenerne conto, osservando come cambiano le logiche produttive e come si formano i primi modelli autoriali, gli studi che diventano marchi e i marchi che diventano mondi condivisi.

Le storie dietro le storie

Il valore più grande del reportage nella storia del videogioco è la capacità di dare voce alle storie che non entrano nei manuali. Il programmatore che ha risolto un bug all’ultimo minuto e ha salvato un lancio, la designer che ha inventato una meccanica rivoluzionaria rimasta anonima per vent’anni, la squadra che ha lavorato di notte per creare un titolo che nessuno voleva finanziare, la piccola software house italiana che ha sfiorato il successo internazionale e quella che invece lo ha ottenuto contro ogni previsione.

La storia del videogioco è fatta di persone, non solo di titoli. Il reportage restituisce queste persone al loro posto: al centro.

Il futuro del racconto storico

Oggi la storia del videogioco è più documentata che mai, ma ha ancora bisogno di reportage. Ha bisogno di uno sguardo che sappia mettere insieme memoria, voce, atmosfera, testimonianza e analisi. Ha bisogno di qualcuno che entri negli studi contemporanei, che ascolti i giovani sviluppatori, che racconti la trasformazione digitale, l’evoluzione dei AAA, la rinascita degli indie, il modo in cui l’Italia sta trovando la propria identità.

La storia non è mai finita. Sta accadendo adesso. E raccontarla come un reportage significa restituire vita a un medium che vive solo attraverso chi lo interpreta, lo crea e lo tramanda.

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